Requiem for a mosca
Odio le mosche,
perché sono esseri inutili,
l’ho sempre creduto.
Nascono per caso,
girano attorno alla merda e lo fanno pure per poco.
Perché per poco muoiono,
dal giorno alla notte.
Non lasciano un segno,
ma non pretendono di farlo.
Sono umili.
E allora hanno il mio rispetto.
Volano,
per il poco tempo che gli è concesso,
nervose, goffe e ronzanti,
volano.
Senza sperare di non finire ammazzate,
nel rapido schiocco d’un ammazza mosche
o nella luminosa illusione di una duecentoventi volt.
Non sanno sperare.
Ho incontrato e conosciuto una mosca.
Io ero ubriaco,
lei con le ali rotte.
E se ne stava inerme e insicura sul pavimento di un bar.
Senza le ali,
il suo mondo ridotto ad una mattonella.
Ringraziando una fortuna che non conosceva,
per non essere morta sotto i piedi,
sotto i tacchi,
sotto le scarpe,
sotto il peso delle persone.
Mi siedo a terra per capirla di più.
Perché voglio conoscerla,
anche se non ha niente da dirmi.
Io con le gambe incrociate cercando le domande da farle,
e lei che si muove indecisa sulla mattonella,
che è forse,
l’illusione di un mondo infinito per chi non ha la certezza delle ali.
Che da tutto strappano e da tutto salvano.
Le avvicino un dito gigante e lei non fugge perché non può.
Nervosa e a disagio in quel suo stato innaturale.
Mi alzo da terra e prendo dal bancone un volantino per raccoglierla e salvarle la vita:
pubblicità dell’ennesimo ristorante improvvisato di nuova apertura,
che giura su carta prezzi giusti e buon gusto.
La giustizia e il buon gusto si sa, sono da sempre molto relativi.
Giro contento col volantino in mano,
e la mia donna,
seduta,
mi guarda e sorride.
Mi dice che l’ha ammazzata,
la mosca senza ali.
Calpestata,
sotto i suoi tacchi.
Sorrido,
coglione e malinconico.
Poi cerco carta e penna per scrivere queste parole.
Nella speranza che il volo d’una mosca,
possa ancora
contare
qualcosa.