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Il mio tempo e il divano che non ho

Il mio tempo l'avevo già dato al lavoro, ai colleghi, agli amici, al culo e alle caviglie di una donna che camminava per strada, ai pensieri, alle sigarette e al caffè. Adesso me ne sto sdraiato sul divano, così piccolo che non c'entro tutto, il mio tempo è appiccicato sul soffitto bianco che fisso mentre suono un ibo per la prima volta e molto male. L'aria è piatta e i suoni fermi, ci sono solo le mie dita che martellano sulla pelle e sul coccio del bongo e il ronzio di una mosca che vola lenta, come se l'aria per lei fosse più densa. O si è dimenticata di morire o si rifiuta di farlo e vuole arrivare a natale. Soffocata dal muro mi arriva la vita della casa accanto, i vicini. Ascolto i suoni imprecisi e me li immagino che si sono appena seduti sul divano, spento la luce in cucina, i piatti ad asciugare infil

ati nella griglia sopra al lavandino e col telecomando in mano scorrono i canali alla tv. Felici nella loro sana routine, completi e appagati, un sorriso che è tutta la loro faccia. Poi: letto, sveglia, il freddo della mattina, bagno, macchina, lavoro, cucina, il calore della sera, divano. E in qualche modo hanno ragione, se sono qui che in parte li invidio. La mosca si pone di scatto tra la mia faccia e il soffitto, così vicina che ho pensato potesse entrarmi negli occhi, insistente e goffa, ci tiene a dirmi che è viva, a farmi vedere che ancora resiste e che l'inverno non l'avrà mai, come io non avrò mai quel sorriso e quel divano. Suonano alla porta e faccio entrare l'amico, tira fuori l'erba e un discorso e li accende entrambi. Io prendo due bicchieri e una birra dal frigo, la stappo e la verso, il mio tempo scivola giù dal soffitto, si stacca e adesso è ovunque. Eppure, manca ancora qualcosa


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